Chi insegna nei percorsi didattici di Corporate Storytelling?
I nostri e le nostre insegnanti sono professionisti e professioniste che lavorano in ambiti molto diversi. C’è chi si occupa di teatro, chi ha pubblicato romanzi, chi scrive sceneggiature per il cinema e per la televisione o è esperto di comunicazione. Una delle poche regole, alla Scuola Holden, è che in cattedra ci sia qualcuno che, nella vita, si occupa per mestiere di quel che poi viene a insegnare in aula.
Questo è importante soprattutto perché rende possibile un passaggio diretto di esperienza, abilità, capacità di risolvere i problemi che tutti i giorni bisogna affrontare. Permette di avere un terreno comune su cui lavorare e, fin da subito, calare nella pratica gli insegnamenti teorici.
Per raccontare chi sono e di cosa si occupano, abbiamo chiesto loro di rispondere a tre domande:
- Cosa insegni principalmente e qual è il tuo cavallo di battaglia?
- Raccontaci un progetto particolare o facci un esempio del tuo lavoro.
- Qual è la cosa più memorabile che ti è accaduta o qual è la differenza che hai contribuito a creare durante un progetto?
Queste sono le loro risposte, i loro volti. Ci vediamo in aula.

Alla Holden insegno tecniche vocali e attoriali applicate al corporate storytelling. Insieme a molti professionisti, lavoro ancora oggi sui loro speech aziendali e la cosa mi riempie di orgoglio.
Favorire la presa di coscienza dei propri strumenti comunicativi è la mia passione. Il miglioramento di questi ultimi attraverso un allenamento intenso e quotidiano è la mia missione.








Per un brand internazionale del lusso abbiamo inventato uno storytelling diverso a seconda del continente: cosa fa dire “wow” a un giapponese, quando entra in una boutique italiana a Tokyo? E a un americano?
Un manager mi ha detto che è riuscito a spiegare l’importanza del lavoro del suo team alla figlia (che ha 11 anni).



Durante un laboratorio con aziende di settori diversi (fashion, retail, finanza), ho aiutato un gruppo di persone a lavorare sulle parole “nascoste” dietro le pagine web. Parole che non si vedono, ma che hanno una loro voce e arrivano a chi naviga sul web con tecnologie assistive. Dopo le mie lezioni, le persone hanno un kit di strumenti da mettere in pratica nell’immediato, che generano benefici sia dal punto di vista tecnico (miglioramenti SEO) che umano. I feedback più belli vengono da chi si avvicina all’accessibilità web per motivi di salute e ritrova speranza scoprendo che si può già fare tanto per migliorare la vita delle persone sul web.

Con un brand di moda, grazie all’etnografia digitale, abbiamo studiato usi, costumi e comportamenti di chi comprava (e mostrava) i loro capi. Risultato? Abbiamo scoperto alcuni insight che nessuna ricerca, analisi o focus group aveva mai fatto emergere.
Dopo ogni incontro, provo una soddisfazione gigantesca per aver aiutato le persone ad avvicinarsi con consapevolezza agli small data, quelle piccole tracce umane che utenti e clienti lasciano online e che ci aiutano a mettere da parte materiale da trasformare poi in creatività e strategia.


A chi mi chiedeva cosa avrei fatto da grande non avrei saputo spiegare, allora, che una formazione filosofica, un’ossessione compulsiva per numeri e dati, e una tenerezza infinita per gli sguardi smarriti di chi deve vivere in un mondo ogni giorno diverso, mi avrebbero portato a scrivere – e insegnare a raccontare – storie che fossero ponti, in grado di mettere in comunicazione tra loro brand e pubblico, imprese e comunità di stakeholder, manager e team, business e vita.
Le storie più belle sono quelle scritte dall’inizio alla fine: dal purpose al piano editoriale, dal payoff alle schede prodotto, dagli speech ai post sui social. Insieme a me, si sono seduti a scrivere queste storie le persone e le imprese più diverse: banche, media company, brand del lusso, residenze per anziani.

Ero a Rimini con un mio socio per tenere una lezione su Storytelling e Community building all’interno del WMF. I festival sono un buon esempio di “posto nel mondo provvisorio”: è pieno di persone che decidono di abitare insieme per un tot di giorni, in nome di una storia. Quando abbiamo cominciato l’intervento, abbiamo invitato tutti a riflettere: «Per sapere come costruire una community, vi basta andare indietro: ricostruite la sequenza di scelte che vi hanno portato a essere qui, oggi. Vedrete che dietro ogni vostra motivazione c’è una storia, e quella storia è tutto quello che vi serve per tenere insieme la vostra comunità». Una volta ho convinto un’azienda di vino a non parlare di vino per un anno. Lo facevano già tutti, e poi il loro era davvero buono, non serviva insistere. Meglio raccontare il bagaglio di storie accumulato in più di mille anni da chi quel vino l’ha sempre bevuto; magari con una particolare attenzione alle emozioni e alle situazioni che cercavano alla fine del calice. Alla fine, non è andata male.

Lo stesso vale per una banca, un consorzio turistico, una compagnia di assicurazioni, un brand dell’automotive, un’azienda produttrice di caffè – tutti mondi che ho avuto l’opportunità di conoscere durante i miei corsi.
Una volta, una responsabile della logistica mi ha mostrato il segno che il Tevere aveva lasciato sul muro del magazzino dopo un’esondazione. “Ecco cosa ci distingue da tutti gli altri”, ha detto. “Che quel giorno abbiamo consegnato la merce nei tempi stabiliti, come al solito. Quel segno sul muro siamo noi”.

Nelle realtà corporate ci si sofferma talvolta su questioni più evanescenti di queste — idee, propositi, concetti — così, quando accompagno un’azienda a raccontarsi, la riporto a terra e ci sporchiamo le mani insieme con gli strumenti di teatro e scrittura. Che si tratti di botteghe artigiane o Società per Azioni, l’idea è la stessa: restituire al brand la sua identità in termini di voce, corpo, azione scenica. Lavorare sulla comunicazione e sulla creatività è, per me, proiettare l’azienda
verso il traguardo che la porta, come il più saldo dei personaggi, a somigliare a se stessa.