Voci che non sono la mia
Discorsi sull’inclusività
con Aboubakar Soumahoro, Simone Regazzoni, Claudia Durastanti, Giulia Balducci e Francesca Mannocchi
19 NOVEMBRE 2021
A TORINO
INCLUSIVITÀ
Il tema dell’inclusività è al centro del dibattito culturale da tempo, e sta diventando una questione troppo importante per non essere discussa.
Anche se nell’immediato ci si sta concentrando soprattutto sul linguaggio e sulla comunicazione scritta e parlata, l’inclusività riguarda ogni ambito delle nostre vite: il mondo del lavoro, la politica, la legislazione che regolamenta l’immigrazione, i problemi che si trova di fronte chiunque debba tradurre testi o scrivere una storia, la visione che abbiamo di noi in relazione all’altro.
Come dice il filosofo Simone Regazzoni, una battaglia per una società più giusta, aperta alla trasformazione, non può giocarsi semplicemente sul piano del linguaggio: si tratta di ampliare l’orizzonte del possibile, costruire l’inatteso, aprire nuovi spazi di gioco.
Voci che non sono la mia è un evento che cercherà di essere inclusivo anche nel modo in cui è organizzato: non esisterà divisione tra pubblico e ospiti sul palco, sarà un dialogo aperto in cui si metteranno in discussione diversi temi.
L’ascolto dei relatori e delle relatrici verrà decostruito, approfondito dagli interventi di studenti e studentesse della Scuola Holden, perché ognuno possa tornare a casa con le proprie idee cambiate, confermate o sconvolte.
L’evento è organizzato in collaborazione con Il Post e Iperborea, in occasione dell’uscita di Cose spiegate bene. Questioni di un certo genere.
Qui c’è una bibliografia dettagliatissima per chi vuole approfondire un po’ i temi della giornata, a cura del gruppo Cantera.
PROGRAMMA
La costruzione del nemico
Le leggi sull’immigrazione che si sono alternate in Italia negli ultimi trent’anni hanno creato una cultura della banalizzazione e dell’indifferenza rispetto alla razzializzazione istituzionalizzata, un concetto disumanizzante che delinea i confini di una presunta superiorità di una parte della popolazione rispetto a un’altra, indipendentemente dalla condizione materiale. Perfino i giocatori di calcio professionisti non sono immuni da questa categorizzazione, nonostante appartengano a una classe sociale più che benestante. Tutto ciò ha legittimato atteggiamenti di deriva razzista. La nostra missione collettiva dev’essere di decostruire, da un lato, il paradigma della razzializzazione in tutte le sue articolazioni e dall’altro di costruire un nuovo modello di comunità che valorizzi le diversità e le pluralità culturali nelle dimensioni immateriali e materiali. Come diceva Nelson Mandela “la liberazione di tutti non comporterà un’altra dominazione razziale”.
Biopotere. Moda del linguaggio, corpi viventi, stile
La centralità del linguaggio come spazio in cui si giocano il destino degli umani, del mondo, le dinamiche di potere, è la moda del momento nell’ambito intellettuale mainstream. Ma una battaglia per una società più giusta, aperta all’altro e alla trasformazione, all’avvenire, non può pensare di giocarsi oggi semplicemente sul piano del linguaggio: questa battaglia rischia di assumere la forma di una polizia del linguaggio, di una morale delle parole, cioè di una forma di controllo e censura in merito a ciò che si può o non si può dire, si può o non si può scrivere in una lotta di denunce, delazioni, confessioni, sconfessioni. Mentre è tutt’altro ciò che occorre fare: si tratta di ampliare a dismisura l’orizzonte del possibile. Sono necessarie invenzioni che rendano possibile ciò che, fino a un momento prima, sembrava impossibile. Queste invenzioni non sono altro che lo stile. Uno stile è un lavoro di invenzione che non si occupa di ciò che si deve o non si deve fare, di ciò che si può o non si può dire, ma costruisce ogni volta l’inatteso, mette in opera la mutazione, apre nuovi spazi di gioco.
Estensione del dominio sulla lingua
Crescere dentro una lingua significa imparare a sperimentarne i confini, capire cosa si può e si vuole dire: il desiderio è poter dire tutto, ma questo desiderio collassa contro i corpi, i bisogni e le storie degli altri. Di quante parolacce, offese e insulti non espressi siamo fatti? Ogni persona crescendo si definisce, trova la sua voce e il suo modo peculiare di esprimersi in base a come attraversa questa membrana tra ciò che è dicibile e ciò che non lo è. La lingua non è mai illimitata, anche quando pensiamo che in nome dell’arte e del talento sappia fare tutto, senza creare ferite. Non si scrive in un vuoto, e non si legge in un vuoto. Nel gioco collettivo della lingua, a cui partecipiamo da quando siamo abbastanza grandi per leggere e scrivere, si alternano tensioni e passioni, soprattutto se a partecipare sono persone che finora non si sono mai affacciate nella stanza, e portano le proprie strategie retoriche e interpretazioni, che si accavallano a strategie e interpretazioni più familiari. È probabile che in futuro, invece di vivere in una lingua educata e noiosa e benpensante, vivremo in una lingua affollata, conflittuale e combattiva, come è sempre stata e non può fare a meno di essere.
Spiegare l’identità di genere (o una buona approssimazione)
Si fa ancora confusione su cosa sia l’identità di genere e i giornali per primi non parlano delle persone in modo corretto. Questo perché le identità sessuali sono complicate, tuttora oggetto di studi diversi, e perché fino a poco tempo fa le persone che vivono esperienze di identità di genere non conformi erano marginalizzate, oppure forzate ad adeguarsi a modelli di vita che non rispettavano il loro vissuto. Inoltre, le esperienze delle persone non si possono ridurre esattamente a un glossario di definizioni precise e fisse, e l’uso e il significato di certe parole è ancora fluido e soggetto a interpretazioni personali. I ragionamenti linguistici sono solo un punto di partenza: le identità di genere sono un tema per cui è importante capire che non tutto si può ricondurre in ogni occasione a ciò che si conosce già, e solo parlando e ascoltando le persone che vivono certe esperienze si può provare a comprenderle.
Vittime. Le vite degli altri
Chi sono le vittime? E chi siamo noi, mentre osserviamo le vittime? Ciò che identifica una vittima non è quel che fa, ma ciò che ha subìto, ciò che qualcun altro le ha fatto. Così si crea un presente ambiguo e una memoria distorta, perché la vittima va celebrata, onorata, commemorata. Perde identità per diventare un altare alla passività, mentre chi guarda è in una postura privilegiata. Ci si sente magnanimi nel tendere la mano, ci si eleva nel celebrare, onorare, rievocare. Ma si conosce davvero chi o cosa si sta coinvolgendo nella propria esperienza di vita? Siamo capaci di riconoscere nell’Altro che ci chiede aiuto, un simile, o meglio: un pari? Forse è necessario chiederci se possiamo ancora dirci capaci di Ospitalità e se la vita degli Altri – di tutti gli altri, dei simili e dei non simili – abbia lo stesso valore della nostra.